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La ricorrenza degli ottanta anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia è stata l’occasione per riflettere su un momento fondamentale della nostra storia, rispetto al quale la memoria si è costruita faticosamente e con ritardo rispetto ad altri temi, come per esempio quello della Shoah. La storiografia su questo tema si è affermata tardi e i manuali scolastici e l’attività didattica ne hanno subito le conseguenze. Solo sul colonialismo, tema strettamente connesso al razzismo, la memoria storica e la ricerca hanno conosciuto un uguale ritardo.
Questo ritardo non è stato casuale. Se la Germania ha dovuto fare subito i conti con la storia a seguito della condanna inflitta ai gerarchi nazisti dal Tribunale di Norimberga e se i governi tedeschi del dopoguerra si sono assunti la responsabilità della Shoah, per l’Italia è andata diversamente. Intanto non c’è stata una “Norimberga italiana” perché l’Italia è uscita dalla guerra cambiando alleanza e non c’è stata nemmeno l’epurazione dei fascisti, sia per ragioni internazionali (l’avvento della guerra fredda) sia nazionali (la presenza in Italia del più consistente Partito comunista dell’Europa occidentale).
In questo clima l’immagine che ha retto a lungo è stata quella de "Il cattivo tedesco e il bravo italiano", come scrive Filippo Focardi (Laterza, 2014), cioè di un fascismo moderato, rispetto al nazismo tedesco, di un regime dittatoriale ma non totalitario, trascinato da Hitler nella guerra e nella persecuzione degli ebrei.
A fatica si è riusciti a ristabilire una verità storica che scopre la tendenza all’aggressione militare, propria e autonoma del fascismo, dalla conquista dell’Etiopia alla guerra di Spagna all’invasione dell’Albania, e l’emanazione delle leggi razziste nel 1938 in piena autonomia da Hitler.
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